Ciao siamo Rebekka e Filippo, quelli sulla vespa rossa nella foto a destra; questo blog nasce per condividere ciò che pensiamo, ciò che ci accade e tutto quello che ci sta a cuore... un po' per gioco e a volte un po' più seriamente...

Monday, November 07, 2005

ETIOPIA, calma apparente dopo il caos
Cinquanta morti e 200 feriti in quattro giorni di scontri. I funerali si sono svolti senza incidenti.
ADDIS ABEBA – Negozi con le saracinesche abbassate, traffico ridotto al minimo, pochi i passanti. Così Addis Abeba piange i suoi morti, per molti dei quali domenica si sono svolti i funerali, fortunatamente senza incidenti. Il bilancio di quattro giorni di guerriglia urbana nella capitale è tragico. Tra agenti e manifestanti una cinquantina di persone ha perso la vita e almeno 200 sono rimaste ferite.
Di giorno non c’era presenza di soldati ricomparsi però a pattugliare la città la sera. Si respira una calma tesa. I taxisti non se la sentono di circolare. Hanno paura che le loro auto possano essere prese a sassate, come spiega Brahnu, l’autista da anni utilizzato dal Corriere: «La violenza può ricominciare da un momento all’altro. Meglio non rischiare. Stavolta non ti vengo a prendere».
I disordini dei giorni scorsi sono cominciati proprio grazie ai taxisti. Nella zona affollata e commerciale dal nome italiano, Mercato, uno di loro stava suonando il clacson, seguendo le istruzioni della protesta organizzata dal partito d’opposizione il Cud (Coalition for Unity and Democracy). La polizia si è avvicinata per arrestarlo, ma la popolazione lo ha difeso e lo ha fatto scappare. Allora sono intervenuti i reparti speciali che hanno circondato la zona. La gente si è organizzata ed ha bombardato gli agenti con sassi e bastoni. Racconta Hailè, studente, testimone oculare che però, sostiene, non ha preso parte alla protesta: «I poliziotti prima hanno sparato in aria, ma nessuno si è spaventato, nessuno è scappato. Quindi, quando stavano per essere sopraffatti, hanno tirato direttamente sulla folla. E’ stato un massacro».
Il primo giorno gli scontri sono stati circoscritti al centro della capitale etiopica, il secondo hanno coinvolto tutte le zone della città. «Una signora mia vicina di casa, che non c’entrava nulla – racconta un italiano che da qualche anno vive ad Addis Abeba - . S’è affacciata al cancello ed è stata colpita da una pallottola in mezzo alla fronte».
Al quarto giorno la città, il cui nome significa Nuovo Fiore, si è calmata, ma gli scontri sono cominciati nel resto del Paese. A Dire Dawa ad Awassa, a Bahar Dar, a Dessie a Debre Marcos. Si parla di parecchi morti e feriti, ma non ci sono conferme. Il timore è che da un antagonismo politico tra un’opposizione, che si sente defraudata da un risultato elettorale penalizzante, e un governo, che ha vinto le elezioni con i brogli, si passi a uno scontro etnico tribale. Ahmara e oromo, l’opposizione, contro tigrini, il governo. Allora sì che salterebbe il coperchio etnico etiopico (un’ottantina di tribù) con preoccupante destabilizzazione del Paese (e il rischio Ruanda, genocidio del 1994)
La comunità internazionale guarda con apprensione all’immediato futuro. Ha lanciato un appello alle parti perché tentino di mettersi d’accordo, evitando di far precipitare la situazione, cosa che danneggerebbe tutti i protagonisti. Ma sembra anche imbarazzata. Tutti sostengono l’attuale regime del primo Ministro Melles Zenawi perché guida l’unica potenza regionale laica, stretta tra una Somalia incubatrice di fondamentalisti islamici e un Sudan che fino a ieri li finanziava e addestrava. Ora però ci si sta rendendo conto che la repressione violenta di questi giorni sta screditando l’Etiopia agli occhi del mondo. Fino a ieri Melles era considerato l’uomo della provvidenza dell’Africa Centrale, l’esempio da seguire per democratizzare il continente. Gli sono stati condonati i debiti ed è stato ammesso all’accesso a crediti di favore.
Uno dei nodi del contendere è la sorte dei leader del Cud, arrestati il primo novembre. «Devono essere liberati per evitare il peggio», ha chiesto a Melles Zenawi, primo ministro e uomo forte del Paese, l’ambasciatore americano Vicki Huddleston. Le manette sono state messe all’eletto sindaco di Addis Abeba, Berhanu Nega, che non ha ancora occupato la sua poltrona. Sul suo conto ad Addis Abeba circola una voce che, se confermata, rischia di distruggere ogni tentativo di mediazione e di portare direttamente alla catastrofe: Berhanu Nega sarebbe in coma a causa delle botte ricevute al momento del suo arresto. A differenza del segretario del Cud, Hailè Shawel coinvolto nei governi dell’ex dittatore Mengistu Hailè Mariam, Berhanu Nega, che di Shawel è il vice, è un attivista dei diritti umani e gode perciò di una fama straordinaria. Un altro dei leader arrestati sarebbe addirittura morto per le percosse il professor Mesfin Woldemariam, settantacinquenne geografo ora in pensione e fondatore dell’Ethiopian Human Right Council. Se fosse vero sarebbe una tragedia che porterebbe dritto dritto alla guerra civile.
Ferew Abebe è il direttore di Reporter, settimanale indipendente critico verso le autorità, ma anche verso l’opposizione. «Il precesso elettorale non è stato chiaro e il governo ha commesso brogli. La televisione e la radio di Stato che durante le elezioni avevano dato spazio all’opposizione, ora si sono richiuse in se stesse e sono tornate come ai vecchi tempi a fare propaganda solo per il governo. In linea di principio l’opposizione ha ragione a reclamare tutti i seggi di cui avrebbe diritto. Ma alla fine cosa sta ottenendo? Qui c’è il rischio che si torni alla dittatura dal pugno di ferro, come ai tempi di Mengistu. Vedo il futuro molto nero».
Il puzzle da sistemare è complicato anche dal fatto che nel nord del Paese soffiano venti di guerra. In questi anni, complice anche la decisione del Consiglio di Sicurezza di revocare l’embargo sul materiale bellico, Etiopia ed Eritrea si sono armate fino ai denti. Ora l’Onu denuncia ingenti movimenti di truppe alla frontiera e il rischio che il conflitto riprenda. Nessuno può immaginare quali saranno i suoi esiti, sia ad Addis Abeba, sia ad Asmara. Una sola cosa è certa: i morti, in questo caso, si conteranno a migliaia.
Massimo A. Alberizzi
malberizzi@corriere.it
07 novembre 2005

0 Comments:

Post a Comment

<< Home